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Orgoglio e Pregiudizio, il mondo di Jane Austen

Di Francesco Cornacchia

Mi sono sempre chiesto chi fosse mai questa scrittrice così famosa in tutto il mondo chiamata Jane Austen. Di lei si sanno molte cose, soprattutto si conoscono i suoi romanzi. Di certo è possibile affermare (senza cadere in critiche pesanti) che oggi la scrittrice detiene un posto d’onore tra i grandi scrittori della storia, inglese soprattutto, che hanno dato una svolta al mondo letterario moderno. Ed è proprio quello che scriverà di lei Virginia Woolf definendola come “la più grande scrittrice donna“. La sua scrittura è semplice, tersa; i temi da lei trattati sono quelli strettamente connessi alla sua vita che, sappiamo, essere stata una delle più appartate e ordinarie che ci possano essere. Jane Austen nasce il 16 settembre 1775 da un pastore anglicano, George Austen  e da Cassandra Leigh nello Hampshire. Penultima di otto figli, non si sposerà mai, esattamente come sua sorella più piccola Cassandra, alla quale sarà particolarmente legata. Sarà proprio quest’ultima che ci lascerà in dono un’immagine della scrittrice che oggi tutti conosciamo. L’unica, forse, testimonianza del suo viso, rivolto di tre quarti, che guarda lontano scrutando qualcosa. I riccioli ricoperti da una cuffietta, labbra leggermente dischiuse: insomma una donna della media borghesia qualunque. Sarà dietro quello sguardo attento e ironico che, osservando intorno, permetterà alla Austen di scrivere i suoi romanzi. Stesso sguardo acuto e attento si ritrova nel suo più famoso romanzo: “Orgoglio e Pregiudizio“. La storia infatti è incentrata sulla figura di Elisabeth Bennet, facente parte di una famiglia medio borghese, la quale combatterà contro i pregiudizi della borghesia nei confronti di Mr Darcy, uomo che chiederà la sua mano, finendo poi per redimersi e svegliarsi dallo stato di diffidenza nutrita dai pettegolezzi. Tuttavia Elisabeth non è l’unica protagonista del libro. Infatti ruolo non indifferente svolgerà Mrs Bennet, madre di Elisabeth, che tenterà in tutti i modi di far sposare le sue cinque figlie, inclusa la maggiore, Jane, che si innamorerà del giovane Bingley, uomo dell’alta borghesia. Lentamente la narrazione volge alla conclusione presentandoci un ritratto perfetto dei costumi della borghesia ottocentesca.

Jane Austen mi ha stupito per il suo modo di scrivere così semplice e delicato. In maniera minuziosa e arguta ci introduce nel mondo borghese, il suo mondo, ricco di contraddizioni, pregiudizi, ipocrisia. Un mondo che necessita di una evoluzione, quella che più tardi avverrà probabilmente con le sorelle Bronte, ma ancora più in là con la stessa Virginia Woolf che raccoglie nel saggio “Una stanza tutta per sé” l’eredità lasciata dalle donne nel mondo letterario. La Woolf dirà: “Se una donna voleva scrivere era costretta a farlo nel soggiorno comune” facendo riferimento agli inizi dell’Ottocento. Ma continua Virginia Woolf dicendo della Austen: “Come riuscisse a fare tutto questo è sorprendente, perché non aveva uno studio proprio in cui rifugiarsi, e gran parte della sua opera deve essere stata scritta nella stanza di soggiorno comune, dove era soggetta a ogni sorta di interruzioni casuali”. Ciò rende Jane Austen una donna brillante agli occhi di molti perché, con la sua capacità di scrivere senza obiezioni alla sua vita borghese, ha reso il miglior lavoro del suo tempo. Non resta che leggere i suoi romanzi con molta dedizione, immedesimandosi nei panni della scrittrice, immaginandosi un protagonista del teatro ricco di dettagli che Mrs Austen ci offre nei suoi capolavori.

Francesco Cornacchia


Siti consultati e consigliati – bibliografia

Jane Austen…. Anticipazioni

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Jane Austen (1775-1817)

Leggere un libro di una certa importanza storica e culturale può essere impegnativo sotto molti punti di vista. Esattamente ciò è avvenuto con il libro di Jane Austen, “PRIDE AND PREJUDICE“, autrice inglese di fama mondiale, tra gli esponenti più importanti di tutta la letteratura pre-romantica inglese. Tuttavia prima di scrivere qualche rigo, bisogna documentarsi seriamente, cercando delle comparazioni con i grandi critici e saggisti che si occupano scientificamente della letteratura. Vi riporto, qui di seguito, la prefazione a cura di Riccardo Reim, (che trovo personalmente deliziosa), per l’edizione “Orgoglio e Pregiudizio” curata dalla Newton Compton Editori per la recente pubblicazione del libro, sotto la collana MINI MAMMUT.

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Orgoglio e Pregiudizio Edizioni Newton Compton Editori (collana MiniMammut)

“La bocca piccola dalle labbra sottili serrate, il naso diritto, gli occhi scuri, acutissimi e singolarmente vivi che spiccano nell’ovale un po’ aguzzo sul volto: così ci si presenta Jane Austen nel piccolo ritratto a matita schizzato dall’amatissima sorella Cassandra. Ritrattino modesto, nato di certo a uso e consumo familiare, e per di più incompiuto, dove solo il viso appare lavorato con una certa affettuosa diligenza: la scrittrice è raffigurata seduta a braccia conserte, il busto che si indovina non proprio perfettamente armonioso poggiato alla spalliera della seggiola, il capo di tre quarti, chiuso in una cuffietta pieghettata da cui spuntano alcuni riccioli bruni a illegiadrire la fronte spaziosa: lo sguardo, serissimo e penetrante, è “altrove” intento ad osservare qualcosa e qualcuno con educata ma profonda curiosità. Una delle innumerevoli signorine di buona famiglia come se ne vedono talvolta nelle Conversation Pieces dipinte da Zoffany o da Copley? una garbata zitellina di provincia pacatamente rassegnata a trascorrere una piatta esistenza tra visite, festicciole, passeggiate e qualche rara incursione nella capitale?… si e no. Di questa enigmatica Miss – enigmatica, come è stato detto “per troppa luce meridiana di quieta vita borghese, sorella esemplare, zia affettuosissima e al tempo stesso autrice di romanzi che sono da annoverare tra gli esiti più alti dell’intera narrativa inglese, esiste, a dire il vero, un altro “ritratto”; un ritratto biografico stavolta, di pugno del fratello Henry, scritto nel 1817 e stampato l’anno successivo nella prima edizione di Northanger Abbey e Persuasion, prezioso per ciò che (a dispetto dell’intenzione modestamente – e a tratti fastidiosamente – agiografica) vi si può leggere in filigrana sul carattere di Jane…..”

Continua….

Radiosa Aurora: Jack London

Burning Daylight, in italiano Radiosa Aurora, è il libro di Jack$_35 London oggetto delle mie ultime letture. Il romanzo si concentra sulla figura di Helam Hernish, un uomo forte, prestante, radioso, proprio come il suo soprannome. Fortemente convinto di poter ottenere risultati dalle sue imprese avventurose, si imbatte in viaggi per l’Alaska che lo condurranno alla scoperta dei giacimenti d’oro. Burning Daylight colto dalla fortuna, diventa un uomo ricco, troppo. Ma se da una parte la vittoria economica lo avvolge, fisicamente e intellettualmente perde, a poco a poco,  le caratteristiche proprie delle sue origini. Nel quadro narrativo appare la figura di Dede Mason, la segretaria del ricco Hernish, che gli mostrerà il lato vero della sua vita, la menzogna del successo e dei soldi. Tra cavalcate nella natura, i due si innamorano ma, prima di poter unirsi, Burning Daylight, Radiosa Aurora, dovrà fare una scelta: essere il vecchio Hernish, umile, forte, coraggioso, non alcolizzato o l’attuale Hernish, l’uomo d’affari, ultra miliardario, alcolizzato.  L’amore trionferà sull’uomo e, come sottolinea lo stesso autore Jack London, “l’amore è la cosa migliore che un uomo possa avere”.

Francesco Cornacchia

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Jack London

Il teatro della Memoria: Simone de Beauvoir

10632680_10202764340817726_846715145947807732_nLa scoperta di un autore è molto più completa quando si conosce la vita e tutti i sentimenti che hanno contribuito a formarne il pensiero. Tra le varie espressioni letterarie troviamo biografie scritte da biografi, studiosi. Il diario da sempre è lo strumento primo per conoscere la vita di un uomo. Seguono le lettere, la corrispondenza di un tempo. Ma mai libro mi sembra più completo se non proprio le “memorie”. Perché nella memoria si celano gli istanti, le emozioni più profonde del nostro inconscio, ma non solo, devi affondare, rivivere per ricordare.

 Mai titolo mi è sembrato più appropriato, e probabilmente non è casuale, quello scelto dalla grandiosa scrittrice Simone De Beauvoir per il suo Mémoires d’une jeune fille rangée in italiano “Memorie di una ragazza perbene” edizione Einaudi 2014.

Il libro, datato 1958, racconta la vita della scrittrice a partire dalla sua prima infanzia, presentando immediatamente la famiglia, il padre e la madre, sua sorella più piccola e la tata Louise. Sin da piccolina dimostra uno spirito ribelle e attenta alle minime sfumature della vita. Il suo animo si dividerà tra un padre intellettuale ed una madre cattolica, fortemente legata a schemi cristiani. In questo connubio quasi agli antipodi, cresce Simone alimentandosi di letture, a cui lei è appassionata. Lentamente in un crescendo di emozioni e di puntuali descrizioni, la scrittrice prosegue il cammino della memoria dando spazio all’adolescenza e al crollare delle certezze che nutriva in casa: “No, mi dissi, ordinando sul ripiano una pila di piatti, la mia vita condurrà in qualche posto..”

Da queste parole in poi, inizieranno ad emergere nuove figure a cui Simone si legherà: Zazà, prima grande amica, e Jacques, il suo primo amore tormentato.

La sua vita sarà dedita alla letteratura e alla filosofia, si iscrive alla Sorbona e compie studi filosofici entrando in contatto con grandi figure: da Simone Weil a Raymond Aron, da Merleau-Ponty a Roger Vailland e ovviamente il filosofo Jean-Paul Sartre con quale proseguirà la sua vita. Simone de Beauvoir oggi si annovera tra i grandi scrittori della storia, precursore del pensiero Novecentesco e probabilmente di tutto l’Occidente. Oggi si ricorda soprattutto per il suo impegno sul fronte femminile, sulla stessa indagine condotta dalla scrittrice sul ruolo della donna nella storia reclamandone i diritti. Memorie d’una ragazza perbene non è un libro semplice, affatto. È un libro che induce a riflettere, probabilmente a scardinare gli animi di coloro che ancora oggi combattono per un posto nella propria esistenza. E bisogna leggerlo per comprendere quanto sia opulenta la battaglia intrapresa per reclamare qualcosa: la libertà.

Francesco Cornacchia

La Signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comprati lei…

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…Con i fogli bianchi e calamaio, uscì fuori nel giardino. Era una splendida giornata di primavera. Il cinguettio degli uccelli risuonava nel cielo immenso. La Signora Woolf guardava spesso quel cielo catturandone tutte le sfumature, i rosati che si divertivano insieme alle nuvole, creando abissi e onde infinite. In quella immensità Virginia tante volte aveva immerso la sua anima, intingendo il calamaio con una sapiente penna con la quale poi, scriveva le sue opere. Era un’operazione delicata quella che avveniva dentro il suo cuore: ma basta guardare il cielo – pensava – ed ogni cosa si risolve. È difficile ritrovare un po’ di luce così intensa in questo secolo – pensò la Signora Woolf – ricordava quando era fanciulla, ingenua ragazza ancora con occhi vergini. Le corse nei parchi, i giochi in compagnia dei suoi fratelli. Tutto si era dissolto in pochissimo tempo. Erano passati molti anni, lei adesso era una donna che varcava la soglia dei quarant’anni e la percorreva cosciente, come un libro che poco per volta si compone, pagina per pagina, divenendo sempre più voluminoso. La signora Woolf però era affascinata dalla vita, dalla sua essenza inafferrabile. Sentiva il peso degli anni, quelli che erano trascorsi, ma tutto sembrava così poco, così breve. Se ricordava le sue letture giovanili, e scavava sino ai libri dei greci e dei latini, rimaneva quasi smarrita dall’antichità, dal tempo che era trascorso. E poi c’era il suo diario che aveva iniziato a portare con sé, perché voleva tracciare i suoi passi. Improvvisamente un vento leggero iniziò a soffiare sugli alberi e le colpì il viso. I suoi capelli leggermente brizzolati si mossero e le sfiorarono il volto. Il cielo era sempre lì, azzurro, contaminato solo da poche nuvole. E lei era di sotto, doveva alzare la testa per osservarlo. E poi c’era l’interiorità, la sua anima. Aveva avuto un dono credeva, la scrittura senz’altro, ma prima di tutto la vita. Un leggero sorriso si formò sul suo viso. I suoi occhi si posarono sul piccolo casale nel quel erano nate molte sue opere, idee, romanzi. Non poteva cambiare posto. Era sacro per lei. Ma c’era qualcosa che la spingeva a rientrare, a ritornare su quella poltrona sulla quale aveva iniziato la sua giornata. Doveva catturare qualcosa che era stato interrotto dall’entrata del Signor Woolf. Così riprese il cammino verso casa, verso la poltrona. Una volta giunta in salotto, guardò nuovamente i fiori che erano rimasti candidamente al loro posto nel vaso color verde smeraldo. Il gioco della natura anche in loro si compiva, tramite le colorazioni, le forme varie e delicate. Il vaso non era il loro ambiente naturale, ma ne costituiva in quell’arredo un quadro; un quadro che doveva a tutti i costi sfruttare. Si accomodò di nuovo sulla poltrona. Prese i fogli e iniziò a scrivere sussurrando a voce leggera: “la Signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comprati lei”.

Era l’inizio di un nuovo romanzo. Era l’inizio della storia che noi tutti conosciamo.

Francesco Cornacchia

Virginia e lo Specchio

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…Lo sapeva bene la Signora Virginia Woolf, che nella sua stanza guardava quei raggi impertinenti che la destavano dal sonno. Non poteva sfuggire una realtà così lampante ad una scrittrice. Allo stesso tempo, come conosceva la sua società, capì che non sarebbe riuscita ancora a dormire. Il Signor Leonard Woolf, suo marito, non era più accanto a lei nel letto. Era uscito presto per una serie di commissioni presso la Hogart Press, la casa editrice che avevano fondato insieme. Perciò decise di alzarsi. La colazione era già nella sua stanza, ma mangiare quella mattina non poteva e vi era anche una ragione. Il suo stato d’animo non era dei migliori. Aveva concluso la giornata precedente con dei pensieri troppo forti. Si era rinchiusa nel suo letto obbligandosi a leggere gli interminabili fogli bianchi sui quali aveva appuntato una serie di frasi. Qualche bozza di un romanzo si poteva anche definire, ma come al solito c’era qualcosa che le mancava. Si alzò dal letto e si preparò per la solita toletta del mattino. Un grande specchio era poggiato poco vicino al suo letto. Mentre preparava i suoi abiti voltò il capo e la sua immagine riflessa quasi la spaventò. Guardava ogni mattina con stupore il suo volto scarno, i lineamenti ben definiti, i suoi capelli raccolti ed ogni volta non si riconosceva. Questo però avveniva solo per pochi secondi; per poco lei registrava il suo volto, il suo cambiamento, per capire quanto il tempo le avesse segnato il viso, per quanto la vita la stesse conducendo nella storia. Non era più una ragazzina, adesso il suo corpo reclamava la verità di una donna, e lo specchio ne restituiva quella volgare sensazione di nudità che le offriva l’esteriore, l’involucro. Interiormente lei era confusa; a tratti smarrita. Sapeva che era nata per uno scopo, scrivere e diventare una scrittrice. Non sono due aspetti uguali, sebbene il sostantivo derivi dal verbo. Lei sapeva scrivere, ne aveva la stoffa e la passione, ma non sapeva ancora come fare a diventare una scrittrice. Si, perché per lei la scrittrice aveva un compito molto arduo, addure all’interno del suo cuore, catturarne il brivido che si dirada nelle vene ed esprimerlo tramite inchiostro su carta bianca. Non era neanche il foglio bianco a spaventarla, non ci sarebbero voluti ingegni per scarabocchiarlo. I pensieri si raccoglievano nella sua testa, ma poi sistemarli non era compito arduo. C’era qualcosa nella Signora Woolf che la faceva sentire a disagio delle volte, e quel disagio nasceva proprio dal mondo interiore, quella coscienza latente che emergeva dal suo intimo. Per questo la sua identità molto spesso la confondeva, ma lo specchio dice la verità. Non può mentire – pensava Virginia Woolf –  questa sono io, in carne ed ossa. Allora si voltava leggermente di fianco e guardava la sua magrezza e ancora lo specchio le restituiva la realtà. Ah se solo potessi restituire questa stessa realtà nella scrittura –  si ripeteva angosciandosi maggiormente. Ma non era un problema ritornare alla realtà. Poco dopo una scossa improvvisa la ridestava dai suoi pensieri e con la sua espressione malinconica proseguiva con disinvoltura a coprire quel corpo che si muoveva adesso nello specchio….

Francesco Cornacchia

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Le belle sfere di Caponetti. Ricordando la presentazione

Incontro del 15 Giugno 2013. Ricordando la presentazione….

GIORGIO CAPONETTI: “DUE BELLE SFERE DI VETRO AMBRATO”

10570362_10202605478246261_2773289195540501985_nIl nuovo Libro dello scrittore esordiente, Giorgio Caponetti, “Due Belle Sfere Di Vetro Ambrato” (MARCOS Y MARCOS) ripercorre una fascia temporale parallela a due epoche: seconda metà del XV secolo e il 2010. Questa suddivisione temporale è indispensabile per comprendere la storia. Infatti i protagonisti sono Alvise Pàvari dal Canal, il quale vive nel 2010, e il zentilomo Pàvaro Pàvari, capostipite della casate dei Pàvari, originaria del 1457. Alvise è l’ultimo discendente e si ritroverà a combattere per una leggenda che si tramanda di epoca in epoca nella sua famiglia, riguardante le due famose “sfere di vetro ambrato” contenenti i testicoli del cavallo “LEONE” del grande condottiero Bartolomeo Colleoni. Ma il dubbio si innesca grazie all’entrata in scena della fascinosa biologa russa Eva Kant, la quale intende clonare il famoso cavallo! Alvise si troverà incastrato tra una leggenda e una rivelazione assurda: la possibilità che la famosa statua del condottiero fosse stata progettata da Leonardo Da Vinci.

Giorgio Caponetti

Giorgio Caponetti

Il linguaggio romanzato abbraccia lo storico e l’umoristico. Il tema dominante dell’opera sono le due sfere di vetro ambrato, fonte di leggenda e di intrigo per tutti i protagonisti. Il 2010 sarà l’anno della rivelazione, il 1457 l’anno dell’effettiva vicenda storica. Tra arte e cultura, Giorgio Caponetti unisce la sua smisurata passione per i cavalli al romanzo, divenendo in un’unica formula, un libro divertente ed emozionante.

Francesco Cornacchia

Una Mattinata… To Be Continued…

1902845_10201467945208646_200222884_nLa mattinata era iniziata col solito zelo. Sveglia ore 7 del mattino, Un viaggio di circa un’ora e poi diretto in facoltà, se ancora si può chiamare facoltà di economia. Attualmente sono studente, iscritto presso l’Università degli studi di Bari “Aldo Moro”. Pago regolarmente i contributi universitari con una riduzione di circa il 100% grazie all’assenza di reddito che in casa mia vige ormai da anni. Ma questo è un aspetto un po’ marginale, cioè io sono una matricola all’interno del mio dipartimento. Quest’ultimo, nel mio caso, è il “dipartimento di scienze economiche e metodi matematici” e questa mattina, esattamente 30 gennaio 2014, sono in attesa di farmi ricevere dalla mia professoressa di Analisi delle Serie Storiche Economiche. Un esame al quanto difficile, ma sarebbe anche troppo scontato usare l’aggettivo difficile. In realtà la difficoltà riscontrata risiedo nell’assenza di basi analitiche e algebriche che non possediamo noi studenti laureati in economia aziendale. Ogni tanto le riflessioni mi possiedono con molta passione. Mi chiedo effettivamente come sia possibile che la mia comprensione rifiuti un esame così mastodontico e aleatorio da sentirmi quasi fragile emotivamente. Sarà per questo che nel frattempo mi sono impegnato ad applicarmi con tutti i crismi possibili. Che dire; intanto le mie forze si stanno poco per volta defraudando. Per questo la Domenica mattina riposo un po’ di più, leggo qualche pagina di un libro, in questo caso “Lolita di Nabokov” e poi mi rimetto a sfogliare il libro di econometria. Copertina blu, piccolo rettangolo centrale e una semplice scritta in caratteri grassetto nero: “Econometria volume I”. Sono privi di emozioni questi libri, non trasmettono una sensazione di vissuto emotivo o passionale. Sono asettici, diretti, algebrici, matematici, scientifici: tutto deve essere perfetto, dimostrato senza un barlume di trascendenza emotiva o spirituale. Ma è una discussione molto più ampia questa, si potrebbe aprire una commissione d’inchiesta tra scienza e fede. Questi pensieri così nevrotici mi possiedono esattamente quella mattina che vi stavo presentando, ricordate 30 gennaio 2014. Seduto nella biblioteca del dipartimento di scienze statistiche, attendo che la docente si faccia vedere per ricevermi. Prima però un caffè ristoratore, ancora digressioni sulla scienza, il pensiero dell’esame mi pervade continuamente. “Chissà gli altri come avranno fatto a superare questo esame?”. Certamente la domanda è scontata ma ancor più banale sarebbe la risposta: basta studiare. Sembra un eufemismo, ma non è così semplice. Le implicazioni di una seduta d’esame sono alquanto discutibili. Si tratta di momenti, di fortuna, di ansia e predisposizione. Potrei dire qualunque cosa, rimanere muto, studiare benissimo ed essere sicuro di quello che dico, ma uscirne comunque insoddisfatto. Mentre questi pensieri mi facevano compagnia, il mio corpo si trasportava automaticamente presso il dipartimento. In ascensore mi ritornavano in mente i momenti dell’esame. La professoressa, capelli corti e occhi leggermente lucidi, che interroga una mia amica. Un dialogo che potrebbe sfinirti esattamente come dopo una lotta. Rivedo la scena: due menti che combattono per la vittoria o la sconfitta. L’ascensore mi annuncia l’arrivo al piano interessato e nel frattempo continuavo a mordermi il labbro. Il mio corpo si trascina presso la biblioteca, una sbirciatina nella stanza della professoressa, registrando la sua assenza mi dirigo nella sala studio. Le conseguenze emotive di una preparazione aumentano quando la stagione non consente una serenità almeno corporale. Due strati di maglioni ricoprono il mio scheletro e una sciarpa arrotolata a tre rimandi mi avvolge il collo e gran parte della nuca. Prosegue la mia mattinata: sono appena le nove e trenta del mattino. Di fronte a me, seduta a due tavoli di distanza, una ragazza controlla delle schede che ha compilato. Ogni tanto sguardi indiscreti cercano di capire il motivo della presenza dell’altro. C’è compassione, magari interesse, voglia di condivisione tra noi due, ma si sa l’intimità e la riservatezza conduce ognuno verso il proprio dovere e pertanto riprendiamo il nostro studio. Questa mattina sono giunto impreparato. Il mio intento è quello di porre alla docente tantissime domande. “E se lei però non volesse sentirmi o si annoiasse a darmi delle spiegazioni?” sono giustificazioni di uno scolare diciottenne, mi dico. Nessuno mi vieta di chiedere dei chiarimenti ad una docente con la quale sto preparando un esame che lei stessa ha condotto. Ripenso un po’ alle lezioni passate. Il mio esordio con la materia è avvenuto dopo tre giorni che lei aveva intrapreso le spiegazioni. I miei colleghi di corso mi avevano anticipato una materia alquanto difficile. Ma si sa le prime impressioni possono essere sempre sbagliate. Ho iniziato il corso di laurea magistrale in “Economia e strategia per i mercati internazionali” con molta sicurezza. Una maggiore consapevolezza questa volta mi ha spinto a decidere di iscrivermi a questo corso, sapendo che avrei dato il massimo delle mie energie e della mia professionalità. Ho superato pertanto queste opinioni iniziali con molta tranquillità, affidandomi alla mia temperanza. Ma certe sensazioni non si possono spiegare. Ognuno nel suo angolo sa esattamente quello che vuole e quello che deve fare. Nel soggiorno della mattina del 30 gennaio, sempre nella biblioteca questa volta del dipartimento di scienze statistiche, la mia battaglia continua. I passaggi temporali abitano questo scenario, perdonatemi. Non so neanche perché scrivo queste parole. Potrei stancare tutti, potrebbero essere solo un cumulo di idiozie o paturnie assurde. Chiamatela deformazione professionale, senza alcun intento di scrittore, la mia indole mi porta a narrare questa mattinata perché ho colto delle sensazioni strane. Ma non solo vorrei rendervi partecipe di un percorso che spesso viene sottovalutato, ma che sotto molti aspetti è formativo e narrativo. Dopo anni di letture sono giunto alla conclusione che molte scene ci si presentano davanti con una naturalezza assurda. La scrittura è nella vita, è lì, pronta per essere dettata. Un uomo che sorseggia ad un bicchiere, una donna che si fuma una sigaretta, una barista che manda al diavolo la sua vita e il suo lavoro deprimente dietro una cassa a fare scontrini, una pivella alle prime armi dietro un bancone, un maschio che si guarda in cielo senza motivo. Sembrerà banale ma ogni cosa nella narrazione assume un significato importante, quando si interpreta il significato intrinseco della vita. Per esempio riprendendo la ragazza seduta di fronte a me nella biblioteca, non mi conosce affatto, neanche io la conosco, non sa nulla di me, chi sono, cosa faccio, neanche io di lei. Probabilmente in questo momento della sua vita starà camminando felicemente per la strada sotto un ombrello a ripararsi dalla pioggia, ma per me diventa una protagonista essenziale della mia mattinata. Anche la stessa mattinata del 30 gennaio non sa che è diventata la cornice in questo testo noioso. Per giunta l’ora continua a scorrere e della professoressa nessuna traccia. Il giorno prima ci eravamo sentiti tramite mail annunciandomi il suo ritardo. Se il ricevimento è fissato per le 10.30 la sua sagoma non si vede minimante neanche durante queste ore. Dovrò aspettare ben due ore perché possa vederla. Esattamente alle 11.30 mentre ero sceso di nuovo al bar per prendermi un altro caffè e riprendermi leggermente, salendo in ascensore sentivo una strana sicurezza, quella seconda la quale mi sarei trovato di fronte la docente che arrivava in dipartimento. Non so perché ma la mia sensazione era fondata…..

(CONTINUA) FRANCESCO CORNACCHIA

Stefano Savella e Il Sogno di Pietro Mennea

Domenica 24 Novembre nella cornice di Libreria La Civetta, Stefano Savella ci ha presentato il suo libro “Soffri Ma Sogni” edito da Stilo Editore. Come sottitolo al libro “le disfide di Pietro Mennea da Barletta” per sintetizzare la vita del grande atleta scomparso recentemente il 21 Marzo 2013. Dall’incontro sono emersi dettagli interessanti e spunti di discussione che hanno coinvolto i presenti. L’oggetto centrale è stato il grande Pietro Mennea che nella sua vita ha collezionato traguardi indiscussi. Un uomo del passato Novecento, di umili origini, determinato e coraggioso che ha fatto del suo sogno la sua leva per il successo. Un’ascesa dettata da una ideologia, un pensiero che è confluito non solo nel campo dell’atletica ma anche nella politica, nella cultura popolare, con rivoluzionarie implicazioni territoriali. Pietro Mennea è stato un emblema per molti, nel bene o nel male, con i successi o conflitti, un esempio per tanti giovani pugliesi che lottano ancora per affermare, nel bellissimo meridione, un pensiero, una identità. La terra di Puglia con i valori della terra, della famiglia, delle origini, del rispetto e dell’amicizia sono un bagaglio culturale essenziale per l’uomo reduce da un Novecento fatto di “realtà liquida“. Tra il pubblico qualcuno ha detto “la realtà è che i giovani ormai non sognano più”. Assolutamente vero. Ma c’è qualcuno che spera ancora, tra il pubblico, tra i giovani. Sogna il nuovo realismo, una nuova era societaria. Spetta a noi definire un pensiero, unico e non unico, abbracciare la realtà globalizzata, non omologandosi, ma condividendo.

Lontano da retoriche parole di circostanza, ringrazio ancora profondamente Stefano Savella della sua presenza. Ogni scrittore, giornalista, saggista, promotore culturale ci aiuta a sviluppare il sogno della nostra piccola azienda: la cultura insieme.

Francesco Cornacchia